Produzione e reshoring per internazionalizzazione

Il Coronavirus ci sta insegnando l’importanza della produzione di beni. Stiamo assistendo al trionfo della “fabbrica”, a quanto sia importante produrre ogni giorno beni di prima e seconda necessità e a quanto sia interconnessa la cosiddetta filiera, che è piuttosto una fitta rete con mille snodi e interscambi.

Produrre è essenziale perché fortifica il sistema.

Quando il governo ha voluto chiudere le fabbriche e si è trattato di determinare le “produzioni essenziali”, si è accorto della difficoltà di stabilirlo. Quasi tutte le produzioni sono essenziali.

Ho sempre avuto il massimo rispetto per le fabbriche, per gli imprenditori e per gli operai. Se il mondo fosse un grandissimo ristorante pieno di cuochi e camerieri, ispettori dell’igiene, amministratori, controllori degli scontrini, ma nessuno entrasse a mangiare, sarebbe un grande “centro servizi” che non saprebbe “chi servire”. Per esistere il “ristorante” ha bisogno di clienti e i clienti sono coloro che “producono”. Nulla da eccepire sulla indispensabilità dei servizi e sulla loro dignità, ma se un’economia si sbilancia troppo sui “servizi” e poco sulla “produzione”, diventa vulnerabile. Alcuni anni fa consultando le tabelle ISTAT (2016), ho scoperto che su circa 61 milioni di abitanti, soltanto 22,3 milioni producevano un reddito da lavoro (solo il 35%) e che di questi 22,3 milioni soltanto 3 milioni erano classificati come “operai”. Possibile? Sono andato a caccia di altri mestieri “produttivi” e per fortuna ho trovato 2,2 milioni di artigiani. Mi sembravano ancora pochi e allora per esclusione, ho intercettato i “lavoratori non qualificati”: 2,4 milioni e presumo rappresentino la manodopera più elementare. Totale: circa 7,6 milioni di lavoratori “fabbricavano” le “cose” essenziali a 61 milioni di italiani, il 12,5% delle persone generavano le “cause” che come “effetto” soddisfacevano i bisogni del nostro vivere quotidiano. Chi conosce Pareto e il suo rapporto 20/80 si interrogherà sulla sostenibilità di questo “sistema”. In Italia il 12,5% della popolazione produce ciò che è necessario al 100% della stessa???!!! (sarebbe interessante conoscere questo rapporto in altri paesi). Se poi si aggiunge che l’indice di produttività dell’Italia è il quart’ultimo d’Europa, allora capiamo come mai l’idea di “sostenibilità economica del sistema Italia” sia difficile da difendere e perché la comunità finanziaria internazionale ci consideri BBB- a una sola tacca dalla zona “spazzatura”. L’avanzo primario positivo del nostro bilancio è un segno del genio italico, ma si sta riducendo e non basta più nemmeno per pagare gli interessi.

Molte sono le cause del calo della produzione italiana. La burocrazia, la fiscalità, i costi elevati della manodopera e l’incertezza del diritto, hanno reso sempre più conveniente delocalizzare. A questo si è aggiunta però una componente culturale. Se abiti all’ultimo piano è utilizzi sempre l’ascensore, il tuo tono muscolare presto risulterà inferiore a quello di chi sale a piedi tutti i giorni, le tue capacità di competere si riducono. In alcuni settori come l’automotive i muscoli si sono sviluppati. La vicinanza con la Germania, produttore di quasi 6 milioni di auto l’anno di gamma alta (contro i nostri 750 mila di gamma medio bassa) ne ha favorito lo sviluppo. Nel nord vantiamo produttori di componentistica altamente tecnologici e automatizzati. Ho visto “operai” in camice bianco, gestire ognuno 3 – 4 torni pluri-mandrino a controllo automatico, che oltre a “tornire” pezzi di acciaio, li filettano, li fresano, li “poligonano” sia davanti che di dietro, senza bisogno di intervenire manualmente. In questi settori la mancanza di “ascensore” (i vantaggi della delocalizzazione) ha sviluppato oltre ai muscoli anche il cervello e troviamo molte eccellenze. In altri settori dove delocalizzare era più conveniente o dove la clientela non era esigente come in Germania (insieme al Giappone uno dei paesi in cui è più difficile esportare per gli elevatissimi standard di qualità richiesti), i muscoli si sono inflacciditi, e di conseguenza anche il cervello (mens sana in corpore sano): abbigliamento, scarpe, biciclette, motori, riduttori, computer, l’elenco dei prodotti made in China, Vietnam, India, potrebbe essere infinito. Dove è rimasto il prestigio del marchio si tira a campare puntando a mercati di nicchia o vendendo alla prima offerta di qualche fondo straniero (Magli, La Perla o il recentissimo Colnago, per citare i primi marchi illustri che mi vengono in mente). Dove il marchio non c’è mai stato o è tramontato, le produzioni vengono abbandonate. Risultato? Si sono perse le competenze distintive, i “maestri del fare” non hanno potuto trasferire il loro sapere, gli impianti sono rimasti fermi agli anni ’80 e i giovani di talento sono scappati all’estero, dove hanno trovato condizioni più favorevoli per esprimersi ad alto livello.

Il coronavirus lascerà sul campo migliaia di nuovi disoccupati. Molti bar e ristoranti non apriranno più; milioni di turisti rimanderanno il loro viaggio in Italia a tempi più sicuri; chi ha perso il reddito o l’ha visto ridursi limiterà i consumi al minimo, o se di talento, valuterà una fuga dove può essere maggiormente apprezzato.

Il reshoringritorno alla produzione interna, oltre che auspicabile è opportuno per una serie di motivi:

  1. il made in Italy ha ancora un grande fascino nel mondo ed è percepito come garanzia di qualità e prestigio;
  2. le competenze ci sono, basta valorizzare quelle esistenti, riportare a casa quelle “fuggite” all’estero o cercarne di nuove. L’Italia è un paese bellissimo dove vengono a lavorare volentieri da tutto il mondo;
  3. il made in Italy, può essere venduto a un margine maggiore rispetto al Made in EU o al Made in China (+10%?), consentendo di recuperare parte del maggior costo della produzione;
  4. nel mondo esiste un mercato immenso di falsi d’autore e di prodotti “italian sound” che può essere combattuto con interventi della politica, della blockchain e dell’autenticazione digitale degli oggetti (IOT);
  5. riattivare il sistema manifatturiero italiano e fargli fare il salto iniziato con industria 4.0 oltre ad assorbire nuova occupazione, consente di creare le condizioni per rispondere ai bisogni di
  6. personalizzazione del prodotto su piccoli quantitativi
  7. garantire consegne immediatealla clientela italiana ed Europea
  8. ridurre le scorte di magazzino e soddisfare l’esigenza di flessibilità dei produttori

Il reshoring potrebbe inoltre farci riflettere sul tema della produttività italiana, la quart’ultima più bassa d’Europa. Un patto strategico tra sindacati e parti datoriali per migliorarla almeno di un 15% concorrerebbe ulteriormente a diminuire il vantaggio della delocalizzazione.

Se poi lo stato riducesse anche solo di un 10% il costo del lavoro di chi riporta le produzioni in Italia e penalizzasse gli utili derivanti dalle delocalizzazioni nuove o esistenti, il processo di riavvicinamento della “convenienza” tra produrre in Italia o all’estero, subirebbe un’accelerazione. Trascuro volutamente i vantaggi che deriverebbero da una fiscalità Europea omogenea e da altri fattori esogeni, su cui non possiamo intervenire direttamente, per concentrarmi su quello che possiamo fare noi!

Aumentare la produzione interna e ridurre la dipendenza da altri paesi ci renderebbe meno vulnerabili rispetto alle variabili finanziarie (cambi, inflazione, spread, borse mondiali, fondi di investimento, private equity) con le quali dobbiamo giocoforza convivere. Comprare i brand italiani per chiudere le fabbriche e trasferirle all’estero, sarebbe meno conveniente. I prodotti con marchi italiani fatti all’estero non sarebbero più “originali” e/o da “collezione”.

Un’ultima considerazione. A fine anni ‘90 gli economisti della new economy dileggiavano la Germania per la sua strategia “old economy”: produzione. La Germania dopo vent’anni è ancora una delle economie “produttive” più potenti del mondo e non certamente per il basso costo orario dei suoi operai, e nemmeno per le carenze del welfare o la bassa fiscalità. I prodotti tedeschi costano molto di più degli altri, ma hanno un mercato mondiale che li apprezza, talvolta anche più dei loro meriti. Ricordate un prodotto alimentare tedesco famoso? No? Vi stupirà scoprire che l’industria alimentare tedesca esporta 55 miliardi di prodotti, contro i nostri 26 miliardi (https://www.mglobale.it/analisi-di-mercato/tutte-le-news/export-alimentare-confronto-italia-germania.kl). Ne vogliamo parlare?

Il Coronavirus ci ha fatto capire l’importanza della produzione, non fare nulla per ridiscuterne i presupposti e riportarla al centro del nostro sistema economico sarebbe un grave errore.

 

Franco Marzo



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